Ciò che ho scoperto di Nadiya
Viola Ardone - Corriere del Mezzogiorno
Ieri è tornata Nadiya. Era partita all’inizio di febbraio per andare a trovare la famiglia, sarebbe stata via un mese. Quanto tempo può durare un mese? Nessuno può dirlo, soprattutto se nel corso di quel mese, si passa dalla pace alla guerra, dall’ordine al caos, dalla routine delle nostre certezze quotidiane alla somma incertezza di un mondo che precipita nel caos.
Il 24 febbraio ho chiamato Nadiya ma il telefonino rispondeva muto e così il giorno dopo e quelli successivi. Il suo tempo non era più il mio, ma era un tempo discontinuo e sfilacciato che rischiava di incrinarsi e andare in pezzi da un’ora all’altra. Ho provato a contattarla ripetutamente ma Nadiya era sparita, nessuna notizia di lei.
Mi sono resa conto, all’improvviso, che di Nadiya non sapevo nulla. Lei sapeva di me tutto, dove abito, quali sono i miei gusti e quelli di mio figlio, i miei orari e le preferenze del mio cane. Io di Nadiya conoscevo solo i dati anagrafici e qualcosa della sua famiglia, perché Nadiya è una che parla poco degli altri e mai di sé. Di Nadiya sapevo che è una gran lavoratrice, che è in Italia da quindici anni, che ha imparato la lingua andando di casa in casa a prendersi cura delle vite degli altri e che tutto quello che ha guadagnato non lo ha tenuto per sé perché tutta la sua famiglia conta su di lei. Di Nadiya sapevo che la sua terra è verde di boschi, gialla di grano e azzurra di cielo. Che d’inverno la temperatura scende sotto lo zero ma d’estate le giornate sono fresche. Di Nadiya sapevo che la lavatrice devi farla di sera perché altrimenti sprechi corrente, che il bambino deve imparare a sparecchiare tavola fin da piccolino, che nel suo paese la scuola non chiude mai, nemmeno quando c’è l’allerta meteo, che il Covid sì è pericoloso ma non è come la guerra, che siamo stati fortunati a fare Astrazeneca perché Putin vorrebbe dare a tutti lo Sputnik e lei di Putin non si fida. Di Nadiya sapevo che ogni volta che dice quel nome chiude gli occhi con disprezzo. Uomo pericoloso, dice Nadiya, guardandosi attorno con circospezione come se quel nome appena pronunciato potesse leggerle i pensieri.
Ogni volta che Nadiya è partita è sempre tornata con gli occhi pieni della sua terra e della sua famiglia, con l’orgoglio di chi sta sopportando una dura separazione perché crede in un futuro migliore e in un presente più dignitoso per i suoi affetti.
Per oltre un mese ho cercato Nadiya nelle immagini dei telegiornali, nei particolari dei racconti dei testimoni, dei reporter, degli italiani che ancora erano lì, avviluppati nelle loro nuove vite ucraine così come Nadiya era stata avviluppata per anni nella sua nuova vita italiana. Poi un bel giorno è squillato il telefono e sul display è apparso il suo nome.
Così Nadiya è tornata ma stavolta con gli occhi vuoti. Adesso è qui fisicamente ma è come se avesse lasciato ogni cosa di sé alle sue spalle. Le ho chiesto di raccontare, ma le parole uscivano frantumate, le frasi a pezzi, come se i bombardamenti avessero messo in crisi anche la sintassi dei pensieri, dei ragionamenti. Guerra, guerra, guerra. Questa l’unica parola che continua a ripetere, che è in estrema sintesi il solo modo per definire la differenza tra il prima e il dopo. Tra il mio tempo e il suo. Tra un viaggio che è iniziato come una vacanza in famiglia ed è finito come una fuga. Nadiya e la sua figlia minore sono riuscite a scappare a piedi, mi dice, trentacinque chilometri di cammino per raggiungere e attraversare la frontiera con la Polonia. Trentacinque chilometri con una bambina di due anni, sua nipote, tenuta in braccio un po’ per ciascuna. Sono scappate senza portare con sé neanche la borsa, soltanto il borsellino con i documenti e i soldi che avevano, per non avere pesi. Figlia e nipote hanno trovato accoglienza in Polonia, ma non si sa per quanto. L’altra sua figlia, quella più grande, è rimasta in Ucraina per assistere la nonna allettata, impossibile tra trasportare. Gli uomini di famiglia precettati, in attesa degli eventi.
Ascolto il suo racconto, così breve, e non trovo le parole. Che cosa posso fare, le chiedo. E nel momento in cui lo formulo il quesito mi si scioglie in bocca. Nadiya mi guarda, pensa che sono una brava persona, probabilmente. Una sciocca brava persona che vive il tempo della normalità, quello che scivola come sabbia fine attraverso il collo di una clessidra, mentre lei oramai è ancorata a un altro tempo, quello che rotola lentamente a valle come un macigno. Mi guarda come dall’altro lato di un abisso, quasi sconcertata che io voglia tirarla dal mio tendendole una mano. Le chiedo se le figlie, se la nipote, se tutti i suoi parenti hanno bisogno di qualcosa, se c’è qualcosa che io possa fare per lei, per loro. Visto che non risponde, le offro del denaro perché possano procurarsi cibo, acqua, latte o, perché no, comprarsi una via di fuga, un passaggio in auto verso la salvezza. Nello stesso istante in cui accetta, io provo un morso nello stomaco perché so che in fondo con quel gesto sto comprando l’illusione di aver fatto qualcosa di buono e di nuovo mi sento insufficiente. Poi mi dico che ogni singolo gesto significa qualcosa e forse niente è inutile.
Restiamo sedute l’una di fronte all’altra, ognuna chiusa nel suo tempo. Il suo silenzio contamina anche me. La solidarietà, penso, significa anche questo: stringersi al silenzio di una persona amica e offrire asilo al suo dolore.
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