Politiche industriali europee ideologiche, adesso basta
La questione del destino dell’industria all’interno della transizione ambientale emerge con sempre più forza. È necessario che l’Europa si liberi subito dai vincoli ideologici. È evidente che la questione non può essere affrontata solo in una cornice europea: richiede una visione e una governance globali. A maggior ragione, se molti dei Paesi che concorrono all’inquinamento atmosferico e all’impatto negativo sul clima sono al di fuori del nostro continente e se, perdipiù, una politica di riequilibrio richiede grande cura per vaste aree geografiche in via di sviluppo. Il disaccoppiamento in atto tra Stati Uniti e Cina, che complica le cose sul versante delle strategie produttive e del ritorno al protezionismo, sollecita un’iniziativa accorta e un ruolo di cerniera dell’Europa. Questo è il motivo per puntare a un ribaltamento di paradigma, imperniato su una modernizzazione produttiva dotata di tutti gli strumenti necessari alle imprese per assicurare progresso economico anziché decrescita. Il cambiamento climatico non è un fenomeno inconsueto, dato che le temperature mondiali hanno sempre subito variazioni.
Eppure, solo con lo sviluppo della prima rivoluzione industriale, Jean Baptiste Joseph Fourier teorizzò il cosiddetto “effetto serra” (1824) e Svante Arrhenius, nel pieno della seconda, studiò l’alterazione della composizione dell’atmosfera e il conseguente riscaldamento del clima provocati dalla combustione del carbone (1896). Un secolo dopo, a seguito delle crisi petrolifere e della nascita di una nuova coscienza per la sostenibilità ambientale, l’ONU formava il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, con il compito di elaborare un rapporto sull’aumento delle temperature (1990). Nel 1992 la Conferenza sull’Ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite approvava la Convenzione quadro sul climate change, dando origine alla Conferenza delle Parti (COP), e nel 1995 veniva convocata la Conferenza sui mutamenti del clima a Berlino, iniziando gli incontri di vertice con l’obiettivo di porre al centro delle strategie globali la riduzione del surriscaldamento del pianeta. Da allora, si sono succedute riunioni con cadenza annuale e risultati alterni, che hanno contribuito, in ogni caso, all’avvio di una transizione ambientale. La COP29, conclusa a fine novembre, aveva in programma tematiche di grande importanza su: finanza climatica, con un nuovo stanziamento generale e un sostegno ai Paesi vulnerabili; mercati del carbonio, con un approccio coordinato per la diminuzione delle emissioni; nuovi piani nazionali, con l’aggiornamento degli impegni per la transizione energetica; geopolitica e sfide politiche, con lo sguardo rivolto al riassetto delle relazioni mondiali. Nel corso dei lavori si sono registrati limitati progressi della discussione, ma anche notevoli divergenze su almeno tre punti: l’articolazione del rapporto tra la mitigazione, l’energia e le questioni finanziarie; il nuovo dispositivo europeo di carbon tax; i criteri per i mercati del carbonio e le compensazioni sostitutive di reali decrementi delle emissioni. La dichiarazione finale del G20 a Rio de Janeiro su “Sviluppo sostenibile, transizioni energetiche e azione per il clima” ha fornito un supporto per affrontare l’impasse di COP29, anche grazie alla previsione di azioni per un’economia circolare volta a ridurre i rifiuti e l’inquinamento da plastica.
Tuttavia, Il compromesso raggiunto in sede di COP29 ha evidenziato che il meccanismo di finanziamento climatico (la relazione tra prestiti, concessioni, da una parte, e sovvenzioni, per tenere conto della crisi del debito, dall’altra) costituisce un argomento critico, con una differenziazione evidente tra i Paesi in via di sviluppo e quelli avanzati. L’accordo economico sottoscritto al termine dell’incontro ha previsto la destinazione di almeno 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 dai Paesi industrializzati a quelli meno sviluppati, come supporto alle misure di contrasto al cambiamento climatico. I Paesi non inseriti formalmente nella Convenzione dell’ONU sul clima tra quelli sviluppati, pur avendo un peso rilevante nelle emissioni (Cina, Corea del Sud, Paesi OPEC), sono spinti a contribuire finanziariamente, ma non hanno alcun obbligo a farlo. La mancanza nel documento di Baku di piani concreti per migliorare le condizioni climatiche e favorire la mitigazione delle emissioni, così come l’assenza di propositi ambiziosi per il sostegno alla finanza climatica e alle perdite dei Paesi più esposti sul versante del debito, denota una situazione di stallo. Perciò, da un lato, occorre continuare a lavorare nelle istituzioni internazionali, concependo modelli più efficaci di funzionamento, per fare della transizione ambientale ed energetica un aspetto del riequilibrio degli assetti globali. Dall’altro, bisogna superare le visioni ideologiche che spostano in direzioni impraticabili la ricerca di soluzioni ai problemi aperti, ripensando la strategia per il mutamento climatico attraverso l’inserimento dei fattori di crescita accanto a quelli di sostenibilità. Una svolta in questo campo può avvenire con l’attuazione del paradigma della bioeconomia circolare, che integra obiettivi di riduzione degli impatti sul clima e sull’ambiente con strumenti industriali essenziali per il mondo del futuro: gli investimenti nell’innovazione tecnologica, l’intelligenza artificiale e la crescita di competitività. In questo modo, si può provare a costruire una convergenza strutturale tra gli interessi dei Paesi in via di sviluppo e quelli dei Paesi emergenti e sviluppati.
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