Non si tratta del secondo tempo dei fondi UE
Amedeo Lepore - Il Mattino
La discussione sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si sta svolgendo su aspetti specifici e temi di natura politica più che sui limiti di impostazione e sulle incertezze di elaborazione. Alcuni commentatori hanno provato a ricondurre il confronto su questi argomenti e l’intervento, certamente non ostile, del Commissario UE per gli Affari Economici ha sottolineato la necessità di “introdurre procedure straordinarie con leggi capaci di accelerare gli investimenti”.
Gentiloni ha segnalato anche l’inderogabilità di spese mirate a investimenti e riforme, con l’intento di sollevare la questione cruciale della execution del Piano, scongiurando il blocco delle erogazioni successive alla sua approvazione ed “evitando di mancare un appuntamento storico”. Stiamo parlando di un enorme sforzo dell’Unione Europea, compiuto in tempi molto ridotti e concentrato in una massa di finanziamenti, che per l’Italia somma ai 209 miliardi di euro del Recovery Fund i 43 miliardi delle politiche di coesione. Guardando queste cifre, si comprende come non si tratti tanto di una quantità di risorse da rivendicare, quanto della loro destinazione a iniziative di qualità e del loro impiego a beneficio del Paese nel suo insieme.
Questi fondi dovrebbero, per loro natura, essere aggiuntivi e assicurare una svolta in termini di ripresa e sviluppo, favorendo un cambiamento di paradigma nel funzionamento delle istituzioni, nella capacità di organizzazione produttiva e di trasformazione del sistema economico e sociale italiano. I difetti di impostazione nella preparazione del PNRR sono evidenti: la mancanza di scelte definite di governance, l’assenza di procedure adeguate ai tempi di spesa, la debolezza dell’impianto delle riforme e la costruzione del programma a partire da una miriade di progetti esistenti, senza una chiara indicazione di impatto sull’economia. Un malinteso realismo nell’approccio al Recovery Plan, che vorrebbe affrontare questa scadenza eccezionale come un aggiornamento di strategie pregresse, può far precipitare l’Italia in una condizione analoga a quella dell’avvio dell’età di crisi negli anni settanta, che segnò l’incapacità di cogliere la fine del modello fordista e la necessità di un nuovo tipo di sviluppo. Il Paese si attardò in una mera ristrutturazione dei settori industriali tradizionali, collocati soprattutto nel Nord, e non fu in grado di intraprendere una coraggiosa innovazione di sistema, trascurando perfino i traguardi conseguiti nel corso del miracolo economico.
Eppure, la pandemia rappresenta l’occasione per un mutamento profondo. La gestione del Piano riguarda gli stessi contenuti programmatici e la loro applicazione: non è legata a una semplice cabina di regia a indirizzo monocratico, che si ripropone in forma di task force ogni volta che si tenta di sfuggire a scelte complesse di carattere politico. Una forma speciale di intervento, più che la struttura di un’agenzia come fu la gloriosa Cassa per il Mezzogiorno del primo ventennio, potrebbe riprendere le sue procedure, che ebbero una forte efficacia per gli investimenti nel Sud, con un regime straordinario che può man mano farsi normalità.
In un intervallo fatto di pochi anni, andrebbero coordinati i numerosi enti che si occupano di investimenti e di coesione, unificandone la direzione e riformandoli sotto l’aspetto tecnico della gestione e non del solo monitoraggio delle iniziative. In questo modo, si otterrebbe una nuova tecnostruttura senza costituirla da zero. Le riforme non possono limitarsi ad accogliere le raccomandazioni europee, dando per scontata l’impraticabilità di una modernizzazione radicale dell’amministrazione pubblica, della giustizia e del fisco.
Infine, i 52 progetti che cominciano a venire alla luce in questi giorni mostrano una frammentazione e una ripetitività di contenuti, rischiando di indebolire alla base i grandi obiettivi della competitività, della transizione verde e digitale, dell’inclusione sociale e della coesione territoriale. Tuttavia, c’è ancora il tempo per lasciare alla politica politicante il rumore di fondo dell’inconcludenza e per rivedere gli assi strategici di questo intervento, puntando decisamente sugli investimenti in grado di cambiare l’Italia e di riportarla a crescere.
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