Perché resteremo global
Amedeo Lepore - Il Mattino
Le cifre della crisi mostrano un mondo sempre più in bilico tra recessione e depressione. Anche la Banca Mondiale parla di un great lockdown, che ha causato una scossa economica di portata senza precedenti. Secondo il “barometro globale delle imprese” lanciato dall’Economist Intelligence Unit, l’impatto sull’economia sarà molto peggiore nei prossimi mesi, con una particolare incidenza sulle prospettive delle aziende in Europa.
Inoltre, il rapporto tra debito pubblico e PIL nei Paesi avanzati, partito da una base già superiore al 105%, aumenterà mediamente del 17%, con punte del 20% negli USA e del 22% in Italia. Gli ultimi dati sulla fiducia dei consumatori e delle imprese mostrano un calo molto forte: la Commissione Europea ha indicato che il sentimento economico complessivo (ESI) è disceso ad aprile di quasi 29 punti, toccando poco meno di 66 punti in tutta l’Unione, eccetto l’Italia, e avvicinandosi ai valori più bassi di marzo 2009. Nouriel Roubini, il profeta delle crisi, ha pronosticato non solo una grande recessione nel corso di quest’anno con una debole ripresa a forma di U, ma anche una depressione maggiore a forma di L in questo decennio, con l’esito di una spinta sempre più forte alla frammentazione e al disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina.
In questo quadro non certo confortante, mentre il Fondo Monetario Internazionale afferma che “una crisi globale come nessun’altra richiede una risposta globale come nessun’altra”, si infittiscono interrogativi di fondo sulla possibilità di prosecuzione del processo di globalizzazione, perlomeno nelle forme dirompenti finora conosciute. Molti studiosi di diverso orientamento, avamposto di un ampio senso comune, pensano che si debba prendere atto di una deglobalizzazione o perlomeno di una slowbalisation – un termine usato dal futurologo Adjiedj Bakas – dato che la pandemia attuale sta intensificando il ripiegamento delle economie internazionali.
In una recente intervista, Walden Bello ha sostenuto che la globalizzazione era sbagliata e si sarebbe dovuto deglobalizzare la produzione già dopo l’ultima crisi finanziaria, anziché avviare una nuova fase di vasta connettività. Per Thomas Piketty è probabile, anche se non certo, che l’impatto del Covid-19 faccia precipitare la globalizzazione, pur considerando necessaria una regolamentazione mondiale per garantire la sostenibilità sociale ed ecologica del sistema economico. Parag Khanna, constatando che il flusso continuo di merci e persone si è interrotto nel breve periodo, prevede che l’economia globale sarà sempre più regionalizzata e destinata a muoversi in ambiti più ristretti. Questi scenari potrebbero essere dettati da una forma di “precauzionismo” o da critiche di varia natura al modello economico prevalso finora.
La realtà dei fatti, però, indica una strada abbastanza diversa da quella della deglobalizzazione, perché è grazie all’interconnessione tra i centri di ricerca mondiali e all’imponente capacità di progresso fornita dalle nuove tecnologie che è possibile combattere risolutamente il virus. È in virtù di scelte assunte a livello sovranazionale che si può far fronte all’enorme portata degli effetti della pandemia, con una risposta coordinata e massiccia come in tempo di guerra. È in relazione ai processi di digitalizzazione, automazione e innovazione robotica che è possibile far proseguire l’attività delle parti più avanzate del sistema produttivo e della società, impiegando competenze, capacità espressive e creatività umana nella gestione e nel controllo di reti, piattaforme e macchine. Si è esaurita una componente storica della globalizzazione, quella dell’espansione dei mercati fine a sé stessa e del predominio di un homo oeconomicus chiuso negli interstizi della propria utilità esclusiva, incapace di collegare la razionalità a un disegno collettivo più vasto. Al contrario, si sta alimentando un tipo di globalizzazione volto a promuovere un nuovo paradigma, in grado di realizzare un’inedita convergenza tra gli interessi privati e pubblici, tra gli individui e i gruppi sociali, tra le imprese, il mercato e lo Stato.
Lo storico Harold James ha accostato l’incertezza attuale con la mania olandese dei tulipani del XVII secolo, una sorta di mercato a termine, che coincideva con la peste diffusa dagli eserciti impegnati nella guerra dei trent’anni e la successiva ondata di liquidità: come allora, l’epidemia sta generando, oltre a gravi ricadute economiche, teorie della cospirazione e ricerca degli untori, che inevitabilmente favoriscono le narrazioni sovraniste e possono minare la ripresa di una cultura universalista. Non di un declino della globalizzazione si avverte la necessità, ma di sforzi di collaborazione, integrazione e governo globale dell’economia, unica vera opportunità per un nuovo rinascimento.
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