Sfida epocale per l'Italia
Intervista a Amedeo Lepore di Daniela Rocca per Dodici Magazine
Quelli che correvano prima del Covid hanno rallentato di colpo. Quelli che inseguivano rischiano di fermarsi col fiato corto. «Occorrono progetti di carattere strutturale che si devono legare e rafforzare alle politiche in atto, collegare anche alle politiche di coesione, all’uso dei Fondi di Coesione e Sviluppo europeo e nazionali che devono essere coesi con il Next Generation EU. È necessario fare un piano che sia costituito da un numero limitato di progetti coerenti con le grandi scelte europee, ovvero la digitalizzazione e la riconversione dell’economia più avanzata e più sostenibile», spiega Amedeo Lepore, professore di Storia economica sia all’Università Vanvitelli di Napoli che alla Luiss di Roma e componente del Consiglio di Amministrazione e del Comitato di Presidenza della Svimez.
Professore Lepore, come si può definire la crisi economica che stiamo attraversando?
«È una crisi esogena dovuta a un evento imprevedibile come la pandemia che si è innescata su una fase di transizione. Una transizione globale iniziata, qualche decennio fa, da un modello dell’economia fordista a un modello postfordista che ancora non è definito in tutti i suoi caratteri. La pandemia ha contributo a rendere ancora più complicati i tasselli di questo passaggio: non solo è nata una crisi esogena ma è una crisi che si diffonde simmetricamente. All’inizio si pensava che fosse una crisi solo cinese, poi solamente cinese e italiana, dopo si è diffusa in tutto il mondo. Al tempo stesso è una crisi che ha effetti asimmetrici sull’economia e sulla società, perché colpisce maggiormente i paesi che hanno debolezze strutturali o quelli più arretrati e le fasce sociali più deboli. Quindi è anche portatrice di un ulteriore aumento di ineguaglianze. Su questo tema va fatta una riflessione profonda».
Quali sono i problemi più grandi che ci troviamo ad affrontare?
«Da un lato l’emergenza sanitaria che richiede una risposta specifica e, in parte, questa risposta è stata data da tutti i Paesi che sono stati interessati. Sul piano sanitario e su quello della tutela della salute dell’individuo, se a marzo questo ritardo nella risposta poteva essere giustificato, in quanto si è trattato di una crisi improvvisa, nella seconda ondata si è mostrata qualche impreparazione e differenti risposte nei singoli paesi. A questo appuntamento, alcuni ci sono arrivati avendo espresso delle politiche in campo sanitario più o meno adeguate, altri purtroppo non hanno seguito la stessa strada. Per quanto riguarda il nostro Paese c’è stato un eccesso di proliferazione dei centri di decisione e il rapporto tra lo Stato e le Regioni non ha aiutato. C’è un tentativo di composizione e credo che vada sostenuto perché quanto più unitaria è la risposta al problema sanitario tanto più efficaci sono le misure successive».
Sul piano economico-sociale?
«Sul piano economico-sociale gli effetti catastrofici sia sulle persone che sulla mortalità delle persone sono stati molto più vasti e dirompenti di quanto si era previsto. Basti pensare al bilancio molto negativo fatto dal giornalista Martin Wolf: si calcola che solo negli Stati Uniti il costo del Covid-19 sia stato di 16 trilioni di dollari, ovvero il 75% del PIL. Se il costo a livello mondiale fosse di questo tipo, cioè del 75% del PIL, il costo totale di questa pandemia dovrebbe essere poco meno di 100 trilioni di dollari. Questo significa che, anche se fosse sopravvalutata questa stima, il danno economico è enorme e si aggiunge al danno sanitario. Quindi occorrono gli strumenti che sono stati messi in campo da ciascun paese colpito ma, soprattutto, occorrono degli investimenti e degli interventi di carattere strutturale».
Lei prevede una ripresa lenta?
«Alla fine della prima ondata sembrava che la ripresa fosse iniziata. Le stime del terzo trimestre di quest’anno sono molto più favorevoli di quello che si pensava, il che denota, in Italia come in altri Paesi, una resilienza e una reattività del tessuto sociale e produttiva ancora forte. Se guardiamo, invece, a quello che sta accadendo ci rendiamo conto chiaramente del carattere duraturo di questa pandemia e i suoi effetti sull’economia dovuti al fatto che c’è una differenza rispetto alle precedenti pandemie. Mentre all’inizio era una parte della popolazione che veniva colpita, adesso, con la scelta del lockdown, in qualche caso del tutto indispensabile, colpisce tutti bloccando l’intera economia. Le conseguenze, quindi, sono ancora più pesanti. In questa situazione non si possono più rinviare gli interventi strutturali e soprattutto non si possano limitare a una risposta all’emergenza».
Un’indicazione è arrivata dall’Europa che si è messa in moto di fronte a questa grave crisi.
«Si pensava che l’Europa non fosse destinata a svolgere un ruolo fondamentale. Qualcuno riteneva che oramai fosse superata e invece si è dimostrata il principale punto di riferimento e ha dato dimostrazione di comprendere la gravità del momento. Certo ci sono ancora divisioni, rallentamenti, però, il progetto del recovery fund e di tanti recovery bland a livello nazionale coordinati dal Next Generation EU, è un progetto che si fa carico della gravità del momento. Il problema è che tutti i paesi dovrebbero dare una risposta adeguata e sostenere questo impianto. Noi siamo molto presi dall’emergenza, ma dovremmo anche comprendere che a partire da questa urgenza devono anche essere varate misure strutturali, altrimenti sarà lunga la fase di recupero. Gli economisti ottimisti parlano di un recupero a doppia W oppure a U, ma c’è anche qualcuno che prospetta situazioni molto più durature di recessione. Io vorrei essere tra quelli che, invece, sostengono la possibilità di una ripresa in tempi ragionevoli. Per fare questo però occorrono politiche e strategie adeguate che si conformino a una strategia europea che sembra convincente».
Dal punto di vista economico, qual è la situazione della Campania e del Mezzogiorno?
«Dopo la crisi del 2008-2014 il Mezzogiorno ha avuto un triennio in cui si è ripreso, ha avuto un risveglio inaspettato, sia pure non di grandi dimensioni ma è anche cresciuto in termini di PIL più del resto del Paese. Questo è stato favorito da alcune politiche che hanno consentito di realizzare soprattutto investimenti produttivi nel Sud. Quindi hanno messo da parte l’idea di un Sud assistenziale e hanno puntato a una trasformazione produttiva. In particolare, il “credito di imposta per gli investimenti” e “i contratti di sviluppo” sono stati due strumenti molto importanti per favorire lo sviluppo della Campania e del Mezzogiorno che, in quegli anni, hanno ottenuto risultati lusinghieri. In quel periodo la Campania è stata la regione che è cresciuta di più a livello nazionale, in termini di PIL aggregato è cresciuta più del 5% in tre anni. Il problema è che nella fase successiva queste scelte sono state bloccate perché è prevalsa, nel periodo precedente all’attuale governo, un’idea di ritornare a dei meccanismi assistenziali. E ora, durante questa crisi, mi pare che siano prevalsi ancora interventi di carattere immediato e non strutturale, a lunga visione. Il problema del Mezzogiorno è che non è una landa desolata e con il colpo ricevuto dalla pandemia sarà più difficile la ripresa. Ma nel Sud ci sono molte eccellenze produttive, molte imprese di varie dimensioni che hanno affrontato la crisi precedente e ne sono uscite rafforzate, internazionalizzandosi e innovandosi. Nel settore delle quattro A (l’automotive, l’agroalimentare, l’abbigliamento, l’aerospazio e industria farmaceutica) ci sono stati dei risultati molto interessanti. C’è una ricerca di Esseremme che mette in evidenza come queste filiere siano cresciute in termini di integrazione, superando il confine meridionale e integrandosi con le imprese del Nord e competendo con esse. Queste imprese sono cresciute negli ultimi anni a livello delle imprese del Nord, prima della crisi della pandemia. Sono riuscite a creare delle catene del valore di carattere globale, imponendosi come un nuovo ambito dell’industria a livello nazionale ma in particolare nel Mezzogiorno. Nell’ultimo periodo, la green economy, la bioeconomia sono diventate di casa nel Mezzogiorno».
Queste imprese da sole non riescono a fare sistema, sono ancora realtà isolate.
«Manca un tessuto connettivo, manca un sistema. Bisogna attuare delle politiche che diano modo a queste imprese di fare sistema e soprattutto occorre fare investimenti per aumentare la base produttiva perché è ancora troppo ristretta rispetto a quella del Nord e a quello che si richiede a livello globale. Questo non è un intervento che riguarda solo il Mezzogiorno. Nel periodo del boom economico, quello della Cassa per il Mezzogiorno, c’è stata un’integrazione profonda tra l’industria del Nord e quella del Sud che ci ha consentito di ottenere una duplice convergenza, ovvero la convergenza di tutto il paese verso i paesi più avanzati e la convergenza del Sud verso il Nord. A livello internazionale, quel periodo ha consentito all’Europa di crescere più rapidamente degli Stati Uniti e, quindi, c’è stata una tripla convergenza, con l’Europa che ha capitanato quel periodo dello sviluppo. È necessario avere lo stesso spirito di quell’epoca, cioè pensare a una coesione tra la struttura produttiva del Mezzogiorno e quella del Nord. Attraverso l’integrazione e a una reciprocità di interessi tra i soggetti del Nord e del Sud, credo ci sia la possibilità di recuperare terreno e di non essere il fanalino di coda dell’Europa, in un momento in cui l’Europa potrebbe riprendere a svolgere un ruolo nello scenario globale».
L’Italia, quindi, ha un grande compito e il Mezzogiorno non è una palla al piede ma può rappresentare una grande risorsa per il Paese.
«Solo se si fanno le politiche giuste che puntino soprattutto sugli investimenti, sull’accrescimento dell’occupazione produttiva e sull’aumento della produttività. Temi fondamentali che bisogna porsi oggi, come argomenti strategici per lo sviluppo del Paese: produttività, accumulazione grazie a nuovi investimenti e grazie a nuova occupazione produttiva. Questioni che riguardano anche il sistema formativo. Temi al centro di un dibattito internazionale che vanno intensificati dalla consapevolezza e dalle politiche del nostro Paese».
Un argomento altrettanto essenziale è quello del debito pubblico. Non c’è il rischio che il nostro debito finisca fuori controllo?
«Occorre fare attenzione altrimenti rischiamo di pregiudicare il futuro. Non possiamo pensare che un accrescimento indiscriminato di debito pubblico sia gestibile perché in futuro potrebbero cambiare i vincoli europei. Bisogna prima cambiare i vincoli europei e il patto di stabilità perché sono sbagliati, ma occorre una responsabilità nazionale per comprendere che oltre determinati livelli c’è il rischio di non tornare indietro. Quindi, da un lato, è molto importante prevedere il denominatore di crescita degli investimenti e, quindi, di crescita del PIL, senza un aumento della ricchezza è difficile ottenere altri risultati. Dall’altro bisogna, però, fare una spesa che sia mirata verso obiettivi produttivi e non sia una spesa assistenziale. In questo momento, è indispensabile porsi questo problema: contenimento del debito pubblico rigoroso, che guardi un po’ allo sviluppo produttivo e alla crescita come elemento per contenere il deficit di bilancio. Credo che sia questa la necessità in questo momento e, purtroppo, non mi sembra particolarmente avvertita. Da qui a qualche tempo, noi ce la ritroveremo, non nei termini di politiche sbagliate di qualche anno fa, ma di uno Stato che è responsabile nei confronti dei cittadini e che cerca di evitare che ci sia un peso drammatico sulle loro spalle nei prossimi anni».
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