Sfide e opportunità della bioeconomia circolare nella fase della riglobalizzazione
Convegno Giovani Imprenditori CAPRI 2023 - Speciale
Le temperie internazionali di questo periodo e il loro impatto sui prezzi delle materie prime, dell’energia e dei prodotti alimentari mostrano la necessità di accelerare le due principali transizioni di quest’epoca, in una simbiosi tra l’innovazione digitale e quella ecologica.
Il processo di trasformazione dell’economia globale passa per una strategia coraggiosa, che stabilisca consapevolmente la gradualità delle tappe di costruzione di un nuovo paradigma di sviluppo, senza fughe in avanti, e sia capace, al tempo stesso, di cogliere tutta la portata di una prospettiva inedita di progresso. In particolare, si tratta di comporre una frattura tra tre aspetti fondamentali del mondo contemporaneo, finora irrisolta e causa di un’alterazione delle condizioni di vita dell’umanità, nonostante i molteplici miglioramenti conseguiti sul piano economico e sociale: la dicotomia tra produzione, ambiente e tecnologie.
A tale proposito, Pierre Veltz ha cercato di unificare questi elementi in una visione generale, osservando che: «La transizione ecologica è una nuova rivoluzione industriale», che può, «di fronte all’urgenza delle sfide ecologiche» provocare delle «vere e proprie rotture tecnologiche, [...] sostanzialmente in linea con quello che gli industriali hanno sempre fatto e saputo fare; con questa (enorme) differenza che ora si tratta di integrare nel calcolo dell’efficienza tutti gli effetti che tradizionalmente venivano omessi da questo calcolo e di agire su un ciclo completo che va dalle materie prime al riciclo dei prodotti finiti. La sfida è orientarsi verso modelli circolari anziché vecchi modelli lineari. Questa sfida, lungi dall’essere puramente tecnica, implica nuovi criteri di misurazione delle prestazioni, una conoscenza approfondita dei flussi e nuove forme di cooperazione tra imprese. È un nuovo panorama industriale che deve essere costruito, ben oltre l’ecologizzazione dei processi produttivi»
La ricerca di una compatibilità tra economia e ambiente è iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, quando le crisi petrolifere e la stagflazione spingevano alla ricerca di un diverso paradigma di crescita produttiva: in quel periodo, ebbe origine il primo orientamento di quella che sarebbe stata chiamata “economia ecologica”, la dottrina denominata anche green economy, che cercava di associare la crescita del benessere umano alla tutela della biosfera e al- l’equilibrio degli ecosistemi, perseguendo una strategia di sostenibilità.
La punta più evoluta e attuale della rivoluzione verde è rappresentata dalla diffusione dell’economia rigenerativa e dal ricorso alle materie prime rinnovabili, con l’intento primario di fondere le ragioni dell’industria con quelle dell’ecologia e dell’innovazione, coniugando forme moderne di competitività con una qualità più elevata dell’esistenza. Del resto, la bioeconomia circolare, ovvero un sistema complesso (composto da agricoltura e filiere agroalimentari, chimica e plastica, farmaceutica, legno e carta, tessile e arredo, acque e rifiuti organici, bioenergia, fino a nuovi ambiti come automotive e aerospazio) imperniato sull’impiego di risorse biologiche (inclusi gli scarti), è uno dei cardini del Green Deal europeo, fornendo un apporto decisivo ai processi di decarbonizzazione, alla riduzione dell’utilizzo delle fonti fossili e all’efficienza di quelle rinnovabili.
Dal Rapporto sulla Bioeconomia in Europa, giunto alla nona edizione e realizzato dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, in collaborazione con il Cluster italiano della Bioeconomia Circolare – Spring, il Centro Studi e Ricerche per il Mezzogiorno – SRM e il Centro Studi Guglielmo Tagliacarne, emerge che questo metasettore in soli quattro Paesi (Francia, Germania, Italia e Spagna) nel 2022 ha generato una produzione di circa 1.740 miliardi di euro, con un’occupazione di oltre 7,6 milioni di persone. L’Italia si colloca al terzo posto in Europa per output stimato, con 415,3 miliardi di euro, e al secondo per occupazione, con circa 2 milioni di addetti.
La bioeconomia ha conquistato un ottimo posizionamento a livello nazionale anche per la sua rilevanza sul totale delle attività economiche, con il secondo posto per incidenza sul valore della produzione, pari all’11%, e il primo posto per incidenza sull’occupazi ne, con un peso del 7,8%. Il metasettore, inoltre, ha rivelato una elevata capacità di resilienza e ripresa nel nostro Paese, avendo registrato, nell’ultimo anno, un rimbalzo del valore della produzione pari al 15,9%, confermando una crescita rilevante in tutti i comparti.
Un dato molto significativo, conte- nuto nell’8° Rapporto, è quello dell’incidenza del valore aggiunto della bioeconomia in singole aree territoriali sul totale regionale: nel 2019 il Mezzogiorno, con 24,9 miliardi di euro, pari al 7%, ha predominato insieme al Nord-Est, con 29,9 miliardi, pari all’8%, ponendosi al di sopra della media nazionale.
Così come le regioni meridionali hanno registrato il maggior numero di occupati nel metasettore, con 714.000 persone, pari al 10,4% degli addetti rispetto al totale dell’area. All’interno della bioeconomia del Sud prevale il comparto agroalimentare, che assorbe il 78% di tutte le attività, con un peso preponderante della filiera agricola rispetto a quella dell’industria di trasformazione. In un quadro più ampio, il rapporto comprova l’esigenza indifferibile di dare impulso a «processi produttivi più efficienti sul piano energetico», basati su fonti rinnovabili, e al reimpiego di «materie prime seconde».
Il processo innovativo incarnato dalla bioeconomia circolare va nella direzione di un salto tecnologico in grado di valorizzare nuovi materiali e prodotti, agendo sia sul lato dell’input che dell’output, e di far progredire un disegno di crescita moderna, contenendo sempre più l’impatto dell’industria sulle risorse naturali, nondimeno aumentandone la produttività.
In un intervento di Luigi Federico Signorini sono stati descritti alcuni scenari per uno sviluppo sostenibile,
partendo dall’osservazione di una minore vulnerabilità dell’Italia rispetto al periodo delle crisi petrolifere. Il Direttore generale della Banca d’Italia ha segnalato l’importanza della finanza verde per fornire supporto agli investimenti privati volti a favorire la transizione climatica e la sicurezza energetica e ha evidenziato la necessità di «un prezzo relativo che renda le fonti fossili meno convenienti di quelle alternative, avvantaggiando così lo sviluppo di tecnologie a basse emissioni».
In questo modo, torna la centralità di un insieme di scelte di politica economica, in un contesto di cambiamento globale. Il Mezzogiorno, alla luce degli strumenti varati per la ripresa del Paese, si presenta come il territorio maggiormente vocato ad accogliere un modello fondato sulla bioeconomia circolare, sia per le sue caratteristiche geografiche e ambientali, sia per il suo “vuoto produttivo”, ampiamente disponibile per insediamenti innovativi, portatori di una forma originale di avvenire industriale.
Dalle origini dell’economia verde si sono fatti notevoli passi in avanti, passando dalla semplice constatazione delle ripercussioni negative delle variazioni entropiche sull’assetto ecologico a una concezione circolare dell’economia, che, oltre a mitigare gli effetti nocivi dell’industria e del consumo sulla natura, si pone l’obiettivo del reimpiego dei prodotti e degli scarti, estendendone il ciclo di vita e generando nuovo valore.
Questo paradigma è ancora in piena evoluzione e può essere il mezzo più efficace per la risalita economica dopo la pandemia, la guerra in Ucraina e la crisi energetica. La frontiera della bioeconomia circolare è rappresentata da un prototipo, che usufruisce soprattutto delle tecnologie e dei materiali più avanzati per massimizzare qualità e risultati della produzione, minimizzando costi, residui ed emissioni.
Il modello di economia a cui può giungere questo straordinario percorso di trasformazione è imperniato su un’innovazione di sistema ad alto contenuto di produttività, capace di promuovere nuovi processi produttivi e nuovi prodotti modulari, longevi, riparabili, riutilizzabili e biodegradabili, in una prospettiva di assenza di rifiuti e di inquinamento.
La connessione tra scienza, agricoltura e industria può alimentare un futuro di questo tipo, senza rifugiarsi in uno scomodo scenario di decrescita. Questi profondi cambiamentisi inseriscono in un contesto in cui, insieme a controspinte che rischiano di enfatizzare nuove forme di statalismo e di rendere irrisolvibile il problema del debito pubblico, si sono cominciate ad affacciare tendenze differenti, propense a ricomporre le vecchie idee antinomiche, che avevano contrapposto Stato e mercato, istituzioni pubbliche e impresa, gettando le basi per l’apertura di una fase di “globalizzazione selettiva” e l’allestimento di uno schema del tutto originale, mediante la connessione tra ricerca, innovazione e industrializzazione robotica in un contesto eco- nomico e sociale in radicale trasformazione.
A questo proposito, Catia Bastioli ha scritto che: «La crisi che viviamo è per certi versi il risultato della resistenza al cambiamento di modello. Dobbiamo essere in grado di riconnettere economia e società attraverso la bioeconomia, perché in questa riconnessione c’è di mezzo molto più dell’industria e dell’agricoltura: c’è l’antidoto contro la crescente povertà che alimenta i populismi, mettendo a repentaglio le nostre stesse democrazie. L’innovazione a servizio della rigenerazione territoriale ha un ruolo fondamentale nella costruzione delle infrastrutture di bioeconomia: non cattedrali nel deserto, ma bioraffinerie con radici nei territori e tra loro interconnesse, per creare una rete di sviluppo realmente sostenibile perché capace di coinvolgere le comunità».
Le value chains che scaturiranno dal mutamento epocale in corso saranno connesse ad altre forme di globalizzazione e a differenti equilibri geopolitici e geoeconomici a livello mondiale. Il punto di ricaduta essenziale di questa “distruzione creatrice” per il nostro Paese si sostanzia in un balzo di competitività e in una riduzione del divario tra le regioni italiane, allo scopo di contribuire al rilancio di una più vasta prospettiva di modernizzazione.
Si tratta di un itinerario appena tracciato, che richiede il dispiegamento delle riforme collegate alla transizione e, soprattutto, una gestione efficiente e unitaria degli ampi strumenti di intervento disponibili, in grado di far procedere saldamente il Green Deal europeo in Italia.
L’insieme di queste iniziative, dunque, deve indurre a fare della bioeconomia circolare il fulcro per la ricostituzione delle risorse materiali e del rinnovamento del tessuto produttivo nazionale, promuovendo intere filiere del valore e creando nuove correnti di crescita sistemica e di coesione.
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