Una strada per la scrittrice di Lascia, 30 anni dopo
Il 10 settembre 1994 moriva a soli 40 anni Maria Teresa di Lascia, attivista politica, scrittrice, deputata e Vice-Segretaria del Partito Radicale
Il 10 settembre 1994, 30 anni fa, moriva a soli 40 anni Maria Teresa di Lascia, attivista politica, scrittrice, deputata e Vice-Segretaria del Partito Radicale. La vita della di Lascia appare oggi retroattivamente, miracolosa, se si pensa che a 40 anni aveva fondato e costruito una associazione come ‘Nessuno tocchi Caino’, di difesa dei diritti dei detenuti e contro la pena di morte, che ha avuto un ruolo fondamentale sulla scena internazionale, e ha vinto il Premio Strega con il suo primo e purtroppo ultimo romanzo. Doveva trattarsi di una persona di una energia e capacità portentose. La lettura del suo romanzo, parzialmente autobiografico, lascia ancora oggi sorpresi.
Il romanzo, ‘Passaggio in Ombra’, racconta una storia del Mezzogiorno del dopoguerra raccontata al femminile, non una novità assoluta, ma certamente una ispirazione per successive interminabili saghe ed imitazioni. È percorso da un senso della fatalità della tragedia che è per certi versi sorprendente in una persona che ha saputo prendere in mano il proprio destino e vivere secondo le sue idee in maniera così straordinaria come la di Lascia.
La storia ha al centro una bambina nata da una relazione occasionale tra una ostetrica di paese e un bellimbusto che parte per la guerra senza sapere di essere padre, e che tornato, inizialmente rifiuta la paternità, per accettarla solo in un secondo momento, affascinato dalla figlia. La vita della piccola è segnata poi dall’arresto del padre, dall’abbandono della madre all’altare (intanto il padre aveva accettato di sposarla), e dalla morte prematura della stessa madre (a 40 anni come la stessa di Lascia). Infine, dall’amore proibito per il proprio cugino, figlio illegittimo della zia, che le viene sottratto. Da questo momento la ragazza si lascia andare a una esistenza priva di significato e di attività, seguita da una prozia volitiva ma inconcludente, irragionevolmente convinta delle qualità prodigiose e manifeste della nipote.
Romanzo più meridionale di questo non esiste. La quantità di tragedie che coinvolge soprattutto le donne della storia è quasi poco credibile in una sola famiglia. Oltre e prima dell’abbandono e morte della madre sola, abbiamo lo stupro della zia da bambina (da cui nascerà l’amato cugino); la morte prematura della bellissima nonna, che lascia il cialtrone e mariolo nonno ‘Tripoli’ libero di vivere alla sua maniera; la sifilide che viene trasmessa alla prozia dal marito quasi distruggendola fisicamente. Una sequenza di tragedie che probabilmente non si è concentrata in una famiglia, ma che quasi giustificano il fatto che la protagonista poi si senta schiacciata da un fatto che potremmo definire minore, la sottrazione di una potenziale amore adolescenziale. È il peso della sofferenza di generazioni di donne che alla fine la schiaccia, anche se la sua tragedia è minore. Di certo quel peso non ha fortunatamente schiacciato la di Lascia. L’epopea femminile del romanzo già nel 1995 ci raccontava di un passato, non troppo lontano nel tempo, di abuso e sofferenza, ma che certamente imbarazzava e che forse è all’origine della scarsa popolarità della di Lascia in Capitanata. Ma anche che ci fa misurare la distanza dal presente e getta una luce quasi caricaturale ed infantile su alcune rivendicazioni.
Non bisogna credere però che la realtà descritta dal romanzo sia solo una di abiezione, abuso e discriminazione. In realtà racconta anche di grandi slanci solidaristici tra persone che a malapena si conoscono. E intere famiglie che aiutano disinteressatamente altre famiglie. La madre della protagonista non rimane sola dopo la nascita della figlia illegittima. Parte della società è solidale ed accogliente.
Il romanzo è meridionale da un altro punto di vista però. La storia racconta prevalentemente del trionfo dei mariuoli, la prosperità di Tripoli che ruba bestiame e, dopo un’avventura coloniale, aggancia un sottosegretario la cui influenza sfrutta anche per ottenere un posto al Consorzio agrario per il figlio (il padre della protagonista). Quest’ultimo viene rovinato dall’unica iniziativa apparentemente utile che assume, l’organizzazione di una fiera del grano durante la quale l’intero raccolto viene trafugato. Rivoltosi alla polizia viene accusato con false testimonianze di essere l’autore del furto. Viene liberato anni dopo solo grazie alla perseveranza di un carabiniere amico che trova la refurtiva. Una storia nella quale sono i furbi, che usano l’autorità solo strumentalmente, che trionfano regolarmente. E anche quando si scampa a questa regola, è solo per legami di amicizia, per umanità o collegamenti.
In passato il romanzo è stato paragonato al Gattopardo. Certamente vive della stessa rassegnata fatalità e credenza nella immutabilità delle cose, la stessa deriva della protagonista lo conferma. Un altro aspetto di similitudine sta nella figura della prozia, che nella sua follia, proietta sulla nipote doti di bellezza e intelligenza prodigiose, che vengono smentite continuamente. Si tratta di una caratteristica dei meridionali, ognuno individualmente convinto, anche a fronte di schiaccianti evidenze contrarie, di essere il ’sale della terra’. Certamente uno dei nostri problemi maggiori. Soprattutto però è romanzo meridionale nel suo eccessivo pessimismo. Non è forse vero che Maria Teresa, al contrario della protagonista, non si è abbandonata alla malattia del fatalismo e ha dedicato la sua vita alla costruzione di un’azione collettiva dai frutti enormi e dilatati nel tempo? O che a distanza di alcuni decenni le genti delle stesse terre di cui narra, attraversate dalla modernizzazione, dalla infrastrutturazione di base della Cassa del Mezzogiorno e dal progresso civile, non si riconoscevano nel racconto, quasi se ne vergognavano? Di fatto è impossibile negare che negli anni della vita di Maria Teresa, Foggia o anche Rocchetta S. Antonio si siano modernizzate a un tasso maggiore di Londra. Una modernizzazione volgare e omologante, che avrebbe orripilato Pasolini, ad esempio, ma che ha di fatto eliminato alcune delle questioni più terribili. Forse peggiorati restano invece i nostri vizi morali. La tolleranza dei ladri e dei furbi, l’incapacità di usare la nostra notoria intelligenza e laboriosità per scopi comuni, il vizio di attribuirci meriti e medaglie immaginifiche, il sostanziale disprezzo per la cultura e la svalutazione della istruzione, la lamentela e il pessimismo dilaganti.
A distanza di trent’anni dalla morte, mi sembra venuto il momento di riconoscere alla di Lascia il suo status. È stata il massimo intellettuale della Capitanata del dopoguerra e come tale merita dalla città di Foggia e dal subappennino una celebrazione, ed anche una strada, degna della sua statura. Anzi sarebbe auspicabile che ci fosse in molte città meridionali, se è vero che la cultura conta qualcosa.
Giuseppe Coco - Corriere del Mezzogiorno Napoli e Campania
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