La guerra come metafora della pandemia
Intervista ad Amedeo Lepore di Luciano Pallini - SoloRiformisti.it
Seguendo il filo della metafora della guerra, qual è il suo giudizio sulla strategia prescelta di contenimento assoluto, con la costruzione di una linea Maginot per impedire al virus di diffondersi? E’ stata una scelta riuscita o esistevano realisticamente alternative più flessibili di risposta.
Viviamo un fenomeno inusitato. Se lo confrontiamo con le pandemie del passato, la più nota delle quali è la “spagnola”, verifichiamo che quel precedente storico, pur producendo danni economici e sociali ingenti, ebbe soprattutto effetti sanitari molto più gravi dell’attuale coronavirus. Vi furono tra 50 e 65 milioni di morti, in diverse ondate, nel corso degli anni tra il 1918 e il 1920. La novità della pandemia odierna non è solo il suo inserimento nel quadro della globalizzazione, ma la sua diffusione simmetrica, sia pure con uno sfasamento dei tempi, in tutto il pianeta. Le sue conseguenze sono state dure – a partire dall’isolamento sociale – investendo interi Paesi, non parti della società e dell’economia, e le misure che è stato necessario adottare hanno riguardato tutta la popolazione. Il lockdown, quindi, la differenzia profondamente da eventi analoghi precedenti. Inoltre, si tratta di un’epidemia che ha colpito asimmetricamente le economie e le società, incidendo maggiormente su quelle più deboli, che avevano pregresse fragilità strutturali e hanno patito un colpo più pesante, rispetto a quelle più forti, che avevano un tessuto connettivo resiliente.
Ma torniamo al tema del contenimento della pandemia, della Maginot sanitaria.
Non sono un esperto in materia sanitaria, ma credo che, in assenza di altri strumenti, fosse inevitabile procedere, soprattutto nella prima fase, a una chiusura generale per tutelare la salute delle persone. Di fronte a una escalationdell’epidemia così rapida e alle sue ondate successive, in assenza di strutture e cure adeguate, il rimedio della limitazione assoluta dei contatti è per molti versi obbligato, perlomeno fino a quando il vaccino non sarà largamente diffuso. Il vaccino serve a tutelare le persone dal punto di vista sanitario e va considerato come la soluzione principale del problema pandemico. Perciò, vanno contrastate le idee oscurantiste contro i progressi della scienza, che bloccano o che cercano di impedire l’impiego degli unici mezzi in grado di debellare il virus.
Arriviamo al tema del che fare per contrastare le conseguenze economiche della pandemia.
Il tema centrale dal punto di vista dei Governi a livello globale è stato quello delle misure da mettere in campo immediatamente a salvaguardia delle persone e delle famiglie, così come delle imprese che muovono l’economia. Contemporaneamente, bisognava e bisogna pensare alle azioni di fondo, che è necessario cominciare a realizzare. A questo proposito, vi è stata una dicotomia, una differenza di tempistica tra la fase delle risposte urgenti legate al sostegno dei redditi, ai ristori per chi era stato colpito dalla pandemia con il blocco del lavoro e delle attività produttive, e quella degli interventi strutturali per rimettere in sesto e innovare il sistema economico. In Italia, di fronte all’emergere virulento dell’epidemia, non si è riusciti a soddisfare nella misura adeguata tutte le esigenze, ma, proprio per questa ragione, occorreva collegare alle misure immediate provvedimenti con una più ampia gittata, che fino a questo momento non si intravedono, se non in un lontano orizzonte. In questo scenario, l’aspetto più importante sul quale concentrare l’attenzione è quello delle politiche economiche e industriali di carattere organico.
Questa sottolineatura ci porta alla discussione che si sta sviluppando sui temi del Recovery Fund e delle risorse che vengono messe a disposizione dall’Unione Europea per la ripresa: vi sono tutti i dubbi fondati sulla esperienza vissuta della incapacità di spendere presto e bene queste risorse, che si apprende, in parte andranno a sostituire la copertura di investimenti già programmati e approvati ma non realizzati, con un contributo alla crescita sicuramente più contenuto.
Si deve guardare alle luci e alle ombre di questo scenario. Le luci principali riguardano la capacità di ripresa dell’Unione Europea, che, anche per il contributo fornito dall’Italia a questa nuova fase, si è desta ed è stata in grado di elaborare in tempi brevi delle misure molto significative con il Recovery Fund. In prospettiva, l’Europa può svolgere un ruolo fondamentale di riequilibrio nel quadro geo-politico globale e tornare a crescere, riducendo divari e inuguaglianze, come era stata in grado di fare durante la golden age del dopoguerra.
Nel corso di questa pandemia, non dimentichiamolo, vi è stato innanzitutto l’intervento della BCE – dopo le prime incertezze di Christine Lagarde, che sembrava non volesse prolungare una politica espansiva di fronte all’irruenza del COVID-19 – mettendo in campo una strategia che ha portato alle estreme conseguenze le scelte del whatever it takes di Mario Draghi.
La scelta del quantitative easing è stata molto importante per fornire liquidità al sistema. Naturalmente la liquidità di fronte all’incertezza rischia di innescare una trappola, che costituisce il tema sul quale, poi, deve intervenire il piano più generale di carattere strutturale dell’Unione Europea, cioè il Recovery Fund, che in realtà si chiama Next Generation EU e che, nelle intenzioni, è concepito come una strategia di investimenti e di sviluppo, al servizio soprattutto delle nuove generazioni. Naturalmente, nel costruire questo piano che guarda al futuro, bisogna pensare al presente e tenere i piedi per terra. Queste misure di ampio respiro puntano a preparare l’avvenire dell’Europa, ma sono indispensabili per l’attualità, per rimettere in moto il meccanismo produttivo, per realizzare gli investimenti nell’industria e nella ricerca, per innalzare il tasso di produttività – in Paesi come il nostro, che hanno smarrito questo obiettivo a partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso –, per creare occupazione produttiva, per fare in modo che le innovazioni tecnologiche della quarta rivoluzione industriale si diffondano nel sistema italiano. Questo è il compito fondamentale a cui dedicarsi, perché tra le luci metterei anche la resilienza e la capacità di risposta delle imprese e dei lavoratori a questa crisi, come è confermato dai dati del terzo trimestre di quest’anno: appena si è allentata la stretta, l’Italia produttiva è stata pronta a ripartire.
Si è visto che, dopo una caduta molto ampia dell’economia nel secondo trimestre, anche nel nostro Paese c’è stato un recupero. Infatti, quando è finito il lockdown, le imprese e i lavoratori hanno mostrato una reazione positiva, suscitando una ripresa consistente, che non ha consentito di rimontare tutto il calo che si era verificato nel primo e nel secondo trimestre, ma ha lasciato sperare in una risalita più rapida del previsto. Quindi, il sistema è reattivo, quello produttivo in modo particolare, e, se viene messo nelle condizioni di operare, può recuperare anche le perdite più gravi.
Ma ora siamo nel pieno della seconda fase
Ed emergono più decisamente le ombre. È arrivata la seconda fase, quella che viene chiamata la “seconda ondata”, che forse è anche il prodotto di un eccesso di rilassatezza di comportamenti e di disattenzione all’evoluzione della pandemia. Adesso, è indispensabile una maggiore centralizzazione delle scelte, non nel senso di tornare a logiche di tipo top down, ma in quello di far prevalere una visione e politiche concrete che non siano foriere di conflittualità tra lo Stato e i territori, tra lo Stato, le Regioni e i Comuni, incarnando decisioni unitarie in grado di evitare la confusione attuale. Sono convinto che tornando a una forte omogeneità di scelte si otterranno riscontri positivi nella società e nell’economia, ma occorre soprattutto una chiara indicazione degli indirizzi da seguire, che non sia differenziata a seconda dei territori o delle istituzioni che intervengono nell’adozione dei provvedimenti.
In sostanza, il coordinamento di queste scelte deve spettare allo Stato, ma sono altrettanto convinto che, uscendo da questo eccesso di dialettica tra territori e istituzioni centrali, sia necessario non solo assumere decisioni valide per tutti, ma mostrare un percorso che convinca le persone e parli ai mercati, in grado, cioè, di creare fiducia. Perché, a differenza di una situazione in cui c’è un rischio che può essere calcolato e, quindi, si può affrontare facendo delle previsioni, la condizione di incertezza derivante dalla pandemia è imprevista e imponderabile. Di fronte a questo scenario, è necessario dispiegare tutta la capacità di direzione di uno Stato e tutta la capacità manageriale degli imprenditori per affrontare crisi e definire le tappe di una transizione a una nuova normalità. Credo sia questo il punto fondamentale: creare fiducia nei consumatori, nei cittadini, nelle famiglie, nelle imprese e nei mercati finanziari, per fare sì che il nostro Paese non viva come un ineluttabile declino questa fase, ma come una possibilità di ripresa e di crescita e, soprattutto, come un’opportunità di innovazione profonda.
Questo ci porta al tema delle riforme, che costituiscono un punto cardine del Recovery Fund secondo gli intendimenti dell’Unione Europea: ma in Italia il termine è talmente usurato, compromesso, da significare tutto e niente, allo stesso tempo.
Da questa esigenza di innovazione derivano conseguenze precise: innanzitutto, le riforme, perché un programma di interventi strutturali non può prescindere dalle riforme e le riforme significano mettere mano seriamente al funzionamento dell’amministrazione pubblica, delle istituzioni e della giustizia, alla capacità di essere efficaci in tutti i luoghi in cui si devono produrre le decisioni, nei tempi e nelle modalità delle scelte. Alcune di queste indicazioni sono contenute nelle raccomandazioni dell’UE richiamate nelle Linee guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ma non basta semplicemente una traccia per affrontare di petto il tema delle riforme in grado di cambiare il volto al Paese. Le riforme sono l’aspetto essenziale del programma di ripresa, complementare alle scelte economiche da attuare. Se nel Piano italiano non saranno combinate, con lo stesso valore strategico, le riforme e le politiche di sviluppo, andremo sicuramente in una direzione sbagliata.
Eppure, attorno al Piano Nazionale di Rilancio cresce la conflittualità, tra le forze politiche, con Confindustria.
Anche le tensioni di queste settimane nella definizione del programma del PNRR devono essere superate, guardando all’interesse generale del Paese e non ai piccoli calcoli di forze politiche o sociali, che farebbero predominare gli interessi particolaristici. C’è un interesse generale del Paese, che è un interesse del Nord e del Sud, con reciproche convenienze ad affrontare insieme questa situazione. È un interesse degli imprenditori e dei lavoratori, che insieme possono costruire un nuovo modello produttivo del Paese, basato principalmente sull’innovazione tecnologica, sulla transizione ambientale, sulla bioeconomia e sulla digitalizzazione. Questo panorama può costituire una grande opportunità che ci consegna la crisi: bisogna saper impiegare bene le risorse del Recovery Fund, altrimenti l’Italia si allontanerà ancora di più dai Paesi che stanno riuscendo a fornire una risposta coerente alla pandemia.
L’Europa è il punto centrale di queste politiche e, grazie al suo risveglio, è possibile che non si sviluppi solamente a livello geo-politico il confronto tra Stati Uniti e Cina, ma che l’Unione Europea possa rappresentare la terza forza in grado di equilibrare la competizione mondiale, riaprendo il dialogo e le relazioni internazionali. Vi sono molte connessioni in questa fase che possono determinare un quadro tutto nuovo e un protagonismo dell’Europa e dell’Italia: naturalmente bisogna accettare la sfida e saperla cogliere.
Parliamo di industria e politica industriale: siamo in presenza del blocco dei licenziamenti, di una cassa integrazione prolungata, il presidente di Confindustria lamenta la scarsa attenzione del Governo per le attività industriali, si assiste a un dilagare, oltre ogni immaginazione possibile, della presenza dello Stato all’interno dell’economia. Ogni discorso che si è fatto nei mesi scorsi richiamava l’urgenza di un nuovo Piano Marshall, ma questo si fondava sulla libertà, sulla libertà che era concessa all’impresa di investire, di riorganizzarsi, di fare, mentre l’intervento dello Stato era concentrato in settore fortemente strategici e con una qualità manageriale di alto spessore che non sembra esistere oggi.
Il paragone è calzante e, visto che abbiamo parlato anche di economia di guerra, vorrei ricordare le parole di Walther Rathenau, grande imprenditore, uomo di Stato e intellettuale tedesco. Egli scrisse ne L’economia nuova, a proposito di una fase analoga a questa, che “le esperienze di guerra ci hanno insegnato a produrre dentro il nostro Paese un gran numero di prodotti importanti; ma d’altra parte noi, che eravamo abituati a distribuire il lavoro degli operai salariati in vista del mercato mondiale, avremo bisogno nuovamente di un grandioso rivolgimento”, nel quale si collocavano gli obiettivi di tornare a svolgere le relazioni economiche e gli scambi internazionali, ma al tempo stesso si poneva il problema del funzionamento e del ruolo dello Stato. Rathenau affermava che una “economia di guerra […] offre […] la dimostrazione, se la si osserva rettamente, che i sistemi apparentemente più immutabili possono essere trasformati non in una sola, ma in molte maniere, e che lo Stato, in quanto esso sia opportunamente diretto, può coi suoi organi e le sue istituzioni adattarsi e muoversi efficacemente in ogni campo del lavoro” (riferendosi così non solo al lavoro, ma al sistema produttivo nel suo insieme). Inoltre, egli sosteneva che “la guerra ha fatto maturare in pochi anni ciò che avrebbe dovuto maturare in qualche secolo”. Ora, l’Europa ha dato prova che un processo che si sarebbe svolto, senza la pandemia, in diversi anni, se non in decenni, è venuto a compimento in pochi mesi. Perciò, guardando al clima e alla connessione virtuosa che si creò ai tempi del Piano Marshall e dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, vorremmo avere anche la dimostrazione di uno Stato capace di dare nel nostro Paese le stesse risposte in tempi rapidi ed efficaci.
C’è a giro tanta voglia di riportare indietro le lancette dell’orologio, ai tempi delle partecipazioni statali e della Cassa del Mezzogiorno
Non è un tema attuale la riproposizione del modello dell’intervento straordinario o, a maggior ragione, di un intervento pubblico tout court. È una strada di altri tempi. La Cassa per il Mezzogiorno, tra l’altro, rappresentò una struttura composta da competenze eccellenti, che riuscì ad agire secondo logiche di forte autonomia funzionale e di gestione tecnica degli interventi, certamente in base a indirizzi politici chiari, ma senza alcuna intermediazione impropria, per più di un ventennio perlomeno.
La proposta di una task force a ogni piè sospinto non permette di cogliere il meglio di quell’epoca e di fornire un’indicazione per il tempo attuale. Il compito dello Stato, nella situazione odierna, è soprattutto quello di suscitare una fiducia e un’energia paragonabile alla forza sprigionata in quella fase del dopoguerra. Allora prevalse la capacità di far coesistere due politiche economiche che apparentemente erano in contrasto: una strategia di contenimento e di sapiente utilizzo della spesa pubblica, che si fondava soprattutto sulla possibilità di orientare l’industria verso l’esportazione e l’internazionalizzazione, e, al tempo stesso, una politica di intervento pubblico in grado di mettere in moto le forze produttive, non sostituendosi ai soggetti del mercato, ma sostenendo il ruolo delle imprese e delle attività economiche, dei lavoratori e delle principali forze sociali del Paese.
Oggi andrebbe richiamato pienamente quello spirito, non tanto gli strumenti di quell’epoca, che appaiono datati perché non sussistono le compatibilità di contesto per riproporli e, soprattutto, perché bisogna interpretare in modo del tutto innovativo, secondo un nuovo paradigma, il rapporto tra l’intervento pubblico e il mercato. Infatti, questa relazione non può più basarsi semplicemente su una ripartizione di compiti o su un’alternanza secca di fasi: prima si privatizza tutto e poi si pubblicizza tutto. Allo Stato si deve chiedere la capacità di creare gli stimoli giusti e gli indirizzi, le regole e il tessuto di sistema, entro i quali gli operatori privati possano agire liberamente e responsabilmente, fornendo il proprio contributo alla costruzione di una nuova economia.
Ma in ogni crisi aziendale si richiede l’intervento dello Stato per tenere in vita aziende in grave sofferenza, tra Cassa Depositi e Prestiti e centinaia di tavoli aperti al Ministero dello Sviluppo Economico, secondo una pratica rimasta sempre la stessa da cinquant’anni.
Lo Stato deve intervenire nelle situazioni di crisi, non accollandosi solo il loro costo, perché sarebbe un grave errore. Se pensiamo alle vicende di Alitalia e dell’ex Ilva di Taranto, ad esempio, comprendiamo come lo Stato dovrebbe aprire al capitale privato e alla capacità di queste imprese di essere presenti anche con alleanze internazionali sui mercati, rafforzando la propria dotazione di risorse finanziarie e le proprie specializzazioni produttive in una transizione economica molto complessa. Il tema della costruzione di un nuovo modello industriale, dopo la fine del fordismo, è all’ordine del giorno da tempo. Gli obiettivi dell’innovazione digitale e della bioeconomia sono i tasselli fondamentali di questo passaggio. La bioeconomia non è un ambito, specie in riferimento al Green New Deal europeo, di semplice rispetto dell’ambiente e di mera sostenibilità, ma è un meccanismo molto più profondo, che da un lato comporta la circolarità dell’economia e il riutilizzo degli scarti, ma dall’altro impone una tipologia di industria con sempre meno emissioni e residui, ovvero adotta progressivamente tecnologie innovative, capaci di configurare un’inedita organizzazione del lavoro e un nuovo sistema produttivo. Questo significa che l’accento va messo sull’acquisizione di nuove tecnologie e sulla dotazione di capitale da parte delle imprese, come aspetto fondamentale di una economia moderna a misura d’uomo.
In questi scenari come interviene la diffusione di tecnologie in grado di sostituirsi all’uomo anche nello svolgimento di attività più sofisticate? In primis l’intelligenza artificiale
Anche questo è un elemento che può essere considerato da vari punti di vista, è uno dei temi centrali dello sviluppo dell’industria del futuro. Nella civiltà delle macchine il rapporto è sempre stato tra l’uomo e la macchina. Tuttavia, in questa quarta rivoluzione industriale la questione si complica, perché il rapporto è tra l’uomo e la macchina, ma anche, grazie all’intelligenza artificiale, tra macchina e macchina: cioè, si verifica il fenomeno di macchine che muovono altre macchine, governando autonomamente il processo produttivo. In questo scenario, si registra la scomparsa dell’uomo e del suo lavoro? Non lo credo assolutamente, perché esiste anche il rapporto tra uomo e uomo, che non può essere sostituito dal rapporto tra macchine “intelligenti”, e c’è la necessità di dirigere questo processo in un verso che può guidare solo l’uomo. Per questo motivo, una radicale innovazione dei sistemi produttivi e la diffusione di queste tecnologie non deve necessariamente condurre a una drastica riduzione del lavoro e dell’intelligenza umana. Piuttosto, occorrono nuove competenze e nuove specializzazioni, capacità inedite di costituire capitale umano e di creare talenti che aprano le porte a nuove forme di occupazione.
Questo è il problema del nostro sistema: compiere rapidamente una svolta, mettere a disposizione del Paese un nuovo modello produttivo basato sull’innovazione e sulla scienza, sulla produttività e sull’occupazione. Se riusciamo a intendere questa esigenza irrinviabile, diventa anche più facile adottare le scelte giuste, come nel caso dell’impiego dell’imponente massa di risorse finanziarie che viene dall’Unione Europea e che avrà valore effettivo solo se non sarà distribuita a pioggia, venendo, al contrario, orientata verso pochi progetti in grado di trasformare realmente l’economia e la società italiana. Il messaggio che scaturisce da questa dura esperienza che stiamo vivendo è chiaro: la pandemia può rappresentare non solo un terribile male, ma anche un’opportunità di cambiamento profondo. Proprio perché siamo immersi in una realtà sempre più integrata, non credo che il mondo vada incontro a una sorta di de-globalizzazione, anche se ci troviamo una fase in cui le catene del valore si stanno riorganizzando soprattutto a livello territoriale. L’integrazione è ineliminabile dal futuro dell’umanità perché abbiamo dei mezzi tecnologici e telematici, oltre che delle esigenze umane, che non faranno tornare indietro il tempo e che prescindono da decisioni politiche. L’opportunità sta nel valore straordinario della connettività e nell’impiego che sapremo fare di questi strumenti.
Una delle questioni che appare centrale in tutti i dibattiti su questi temi è l’esigenza di contrastare una sempre più accentuata disuguaglianza delle ricchezze
Questa nuova fase dell’integrazione globale dovrà essere più rispettosa dell’uomo, deve essere diretta prioritariamente a creare uno sviluppo che si distribuisca in modo sempre più paritario tra coloro i quali partecipano della società e dell’economia. Si tratta di impegnarsi per costruire un mondo nel quale vengano combattute le ineguaglianze, attraverso il progresso e la crescita e non mediante i dispositivi tradizionali dell’assistenza e del trasferimento del reddito. In questo quadro, dunque, l’innovazione si collega anche all’uguaglianza e fa risaltare la possibilità, con questo binomio, di realizzare una nuova fase di sviluppo.
Questa è la speranza che deve derivare dall’esperienza in corso, sapendo che ci troveremo di fronte ogni volta di più, visto che il mondo è complesso e articolato, a nuove sfide. Non sarà l’unica questa del coronavirus, ne avremo altre da combattere, che potremo vincere solo se prevarrà una visione generale e una capacità di guardare al futuro. Il tema fondamentale riguarda la capacità di interpretare pienamente questa nuova concezione del mondo, pena la collocazione del nostro Paese al margine di questa trasformazione, in una condizione di estrema difficoltà.
Siamo a un crocevia della storia e, come è avvenuto in altre epoche, siamo chiamati a dimostrare che non rappresentiamo una realtà in ineluttabile declino, ma che possiamo concorrere a diventare tra i protagonisti di questa nuova fase europea.
In questo quadro di grande interesse che hai ricostruito come si collocano i giovani? Perché percepiamo in questo momento una grandissima sofferenza. Abbiamo scaricato su di loro il debito pubblico, per il lavoro li abbiamo indirizzati verso attività nei servizi, nel turismo nella ristorazione, oggi tra le più duramente colpite. Abbiamo tolto loro la scuola, luogo di apprendimento e di formazione del cittadino e della socialità. Non hanno scenari comprensibili di fronte a loro: come possono essere coinvolti, perché debbono essere coinvolti e protagonisti, come si possono chiamare a un nuovo protagonismo attraverso l’assunzione di nuovi ruoli all’interno della società della politica, dalla quale si sono allontanati?
Lo stato della politica, scarsamente attrattiva e per nulla esaltante per i giovani (e non solo per loro), è un discorso molto più complesso. Innanzitutto, non si tratta di agitare retoricamente il tema dei giovani o delle donne, come è facile fare, ma di guardare al sodo, alla sostanza dei fatti. Questo sarebbe un buon esempio di politica non politicante. Se, in questa fase, non si presta attenzione a come vengono utilizzate le risorse, alla necessità di un loro impiego produttivo, facendo risalire il denominatore del rapporto tra il debito pubblico e il PIL, è chiaro che si determina un danno irreparabile per i giovani e per le future generazioni. Il debito pubblico, che è indubbio dovesse crescere per rispondere all’emergenza e per porre le basi di una ripresa, non può diventare incontrollabile. Bisogna pensare oggi a come man mano si possa rendere sempre più sopportabile questo peso, riducendolo progressivamente. Questo mi pare il primo impegno concreto da prendere con i giovani. Inoltre, le risorse vanno spese per costruire una prospettiva concreta di formazione e di lavoro produttivo, in una parola, per inverare un presente e un futuro degni della speranza delle nuove generazioni.
Questo obiettivo si può perseguire solo se il Paese, insieme a una spesa rigorosa e non dispersiva, sarà in grado di impiegare le risorse in sbocchi che contribuiscano alla crescita industriale, alla dotazione delle infrastrutture e dei servizi indispensabili per un’Italia moderna. Oltre a un percorso impegnativo di questo tipo, ma meno palpabile per un giovane perché incide su una prospettiva medio-lunga, nell’immediato c’è l’esigenza sostanziale di assicurare ai giovani e alle donne opportunità maggiori di quelle scarsissime fornite negli ultimi anni. Il Paese deve promuovere nuove professioni e attività economiche, che non possono essere lasciate alla ricerca individuale e disperata di un’occupazione, favorendo la nascita di un sistema che consenta ai giovani e alle imprese di far parte di un insieme integrato, facendo maturare un’idea o un progetto in un ambiente fertile e produttivo.
Perché in Italia non abbiamo avuto negli ultimi decenni, dopo i grandi esempi del dopoguerra come Mattei, Olivetti e Gardini (l’inventore della bioeconomia), altrettanti casi di visionari in grado di cambiare il volto della nostra economia? Perché il nostro Paese si è abbandonato alla routine, a un sentiero tradizionale di sviluppo, andato bene per un’altra epoca, ma che, dopo i conflitti petroliferi e dopo l’avvio di un’età di crisi, è diventato un percorso a ostacoli tale da richiedere di essere profondamente innovato.
Perché nel Mezzogiorno si sono formati tanti giovani che sono dovuti andare altrove? Mica c’è una “dannazione della realtà”, che non può essere modificata! Può essere cambiata se ci sono degli interventi – e qui lo Stato ha un ruolo fondamentale – per costruire un sistema che parta dall’istruzione e arrivi al mercato del lavoro, avendo come punto conclusivo la capacità di creare lavoro autonomo e impresa. Questo è l’obiettivo, se si intende parlare un linguaggio dei fatti e non semplicemente cercare di raccogliere un effimero consenso da parte delle nuove generazioni. Bisogna guardare a queste prospettive di mutamenti strutturali, di innovazioni di fondo, realizzando quello che Rathenau chiamava un rivolgimento della nostra condizione, coraggioso, che lasci in disparte i corporativismi, i piccoli gruppi di potere, e metta in campo un’idea generale di profonda trasformazione.
L’Italia ci è riuscita dopo la seconda guerra mondiale (ed era un Paese per nulla avanzato), non vedo perché adesso non lo possa fare.
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