Se dopo la paura tutto tornerà a come era prima
Amedeo Lepore - Il Mattino
In questi giorni destinati a distensione e svago, paradossalmente si patiscono gli effetti di un clima bipolare, con la singolare concomitanza di incendi e alluvioni, e aumentano le preoccupazioni per un ritorno pandemico.
Ai primi di agosto, J. Bradford Delong ha descritto una “estate del disastro”, caratterizzata dall’ascesa della variante Delta e dalla mancanza di una produzione di vaccini pari alle necessità, fatti che impediscono di iniziare a parlare di un’economia mondiale post-pandemica. Ma la parte più inquietante del suo articolo su “Project Syndicate” è dedicata all’esame dei preconcetti negazionisti, che, sebbene siano una “insalata di parole cospirativa”, sono stati accolti da circa un quarto degli americani. Secondo l’intervento più recente di Jayati Ghosh sullo stesso autorevole sito, la tempesta perfetta del Covid-19 e le variazioni climatiche, con i loro danni economici, potrebbero scatenare una tale instabilità da far pensare che “l’Apocalisse è adesso”.
Queste circostanze inducono a valutazioni gravose sul rapporto tra le condizioni di vita sul pianeta e l’operato dell’uomo. La realtà è molto più complessa di quanto appaia, ma può risultare difficile discuterne di fronte a una sempre più folta schiera di apocalittici e integrati. Anch’essi sono poli opposti di una visione del mondo ridotta al minimo indispensabile di accettazione o rifiuto in toto dei fenomeni in atto, senza la ricerca di una spiegazione meno elementare. Nel quadro di un mutamento pressante dello scenario geopolitico, di cui le vicende dell’Afghanistan sono la rappresentazione più drammatica, il compito di chi governa resta il punto di riferimento essenziale per sbrogliare la matassa dei problemi e offrire una prospettiva positiva.
La fase ciclica del nostro Paese, da questo punto di vista, è nettamente migliorata e mostra una capacità di reazione per molti versi inaspettata, che va dai programmi interni di investimento e riforma del PNRR, ai successi a livello internazionale in vari campi, sportivi e no, fino ai segnali di un’economia pervasa di fiducia, che si pone ai primi posti della ripresa a livello continentale. Basta questa inversione di tendenza a favorire la formazione di un senso comune più maturo e adeguato alla profondità di questa transizione e a rendere duratura nel lungo periodo la svolta? Probabilmente, l’attenzione va spostata dalla valutazione pura e semplice dell’azione di governo, che sta rispondendo con efficacia alle esigenze strutturali del momento, a un ambito culturale, che può rendere più agevole la comprensione del turning point epocale che stiamo attraversando.
Un grande studioso del Mezzogiorno – e non solo – quale Ernesto De Martino, nell’opera postuma dedicata alla “fine del mondo”, faceva ruotare la sua analisi sull’angoscia legata al ritmo del divenire e alla sua percezione. La rapidità del cambiamento nei momenti critici dell’esistenza ha richiesto sempre, a suo avviso, una trasposizione della riflessione sul piano dei valori, pena l’uscita dalla storia, con la creazione di rituali in grado di fermare il tempo. Egli indicava nella fine di “un” mondo “una esperienza salutare, connessa alla storicità della condizione umana”, che svela, piuttosto di un destino di rovina generalizzata, l’avvio del “mondo di domani”. L’incertezza sistemica di questa fase ha contribuito a suscitare concezioni chiuse e disperate, spesso irrazionali. L’esito di questa inquietudine non è scontato, come è accaduto in altri periodi analoghi. Il tempo che stiamo vivendo non è segnato irrimediabilmente da una conclusione funesta delle innumerevoli contraddizioni che lo accompagnano. Perciò, è meglio lasciare il racconto dell’apocalisse dell’umanità nel XXI secolo alla fantascienza visionaria di Mary Shelley e provare a comporre i tasselli di culture innovative, per accelerare la definizione di un nuovo modello di sviluppo. Questo sforzo può fornire risposte più strutturate alle trasformazioni in corso e strumenti di supporto alle strategie di governo. L’importante è evitare di capire troppo tardi, come ne “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig, che è necessario agire senza indugi, prima che una catastrofe avvenga. O scongiurare l’eventualità che, come nel film ambientato a Napoli, dopo il grande smarrimento provocato dalla voce che annuncia dal cielo l’inizio del giudizio universale, tutto si risolva con il ritorno alla vecchia e abusata normalità, dimentichi del tragico rischio trascorso. Ecco, sicuramente questa possibilità non ci è concessa.
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