La nuova «fase» della malattia
Maurizio De Giovanni - Corriere del Mezzogiorno
La fase due, abbiamo detto. E sembrava un passo, l’inizio di un percorso. Abbiamo immaginato una strada, magari lunga, magari tortuosa verso la normalità. Abbiamo pensato appunto a una fase, uno stadio più o meno programmabile e più o meno programmato, che portasse alla vita di prima, con i lati oscuri e quelli illuminati della vita di prima.
E invece non c’è niente di normale, nella fase due.
E invece, a richiamarci alla realtà con la violenza e il dolore degli atti estremi, ci arriva la notizia del gesto di Antonio.
Vogliamo pensare a lui così, col nome di battesimo. Senza luoghi, senza numeri, senza ridurlo a una statistica come sta accadendo per tanta, troppa gente in questo tempo buio, in questo tunnel che ha tante finte luci che illudono che siamo alla fine, che ci sarà un ritorno.
Antonio che è padre, che è marito. Antonio che ha vissuto un isolamento fatto di notti infinite, lo sguardo cieco su un soffitto senza futuro, a fare e rifare sempre gli stessi conti che non tornavano mai. Antonio che era abituato a fronteggiare gli impegni con onore e scrupolosità. Antonio che non ha nemmeno sessant’anni, che ha messo su una struttura industriale che si è fatta un buon nome nel mondo che è stato.
La fase uno era quella degli arresti domiciliari volontari, quando tutto era sospeso e non era detto che ne saremmo usciti. La fase uno aveva una sola malattia, la sospensione: e un po’ di paura di prenderselo, il virus, e finire intubati in qualche letto di terapia intensiva; ma dalle nostre parti era una paura teorica, meno di cinquemila su sei milioni, e meno di quattrocento morti, anziani e malandati per lo più. Antonio avrà passato i giorni con la moglie e la figlia, davanti al televisore come tutti, intimorito e poi incuriosito. Fino a quando ha potuto tornare nella sua azienda, quando ha guardato i suoi fantasmi in faccia. E da essi è stato ucciso. Chissà quando sarà cominciata l’altra fase, dentro di lui.
Chissà quando avrà contratto la Malattia, Antonio: quella che arriva in silenzio nelle domeniche pomeriggio, che si annida in un luogo tra lo stomaco e il cuore; che ti fa passare davanti agli occhi le facce dei dipendenti, dei loro familiari, che magari nello stesso momento pensano con fiducia a un futuro molto simile al passato, fatto di sogni piccoli e di uno stipendio sicuro che lui, Antonio, forse non avrebbe più potuto garantire. Gli imprenditori come Antonio non hanno una sola famiglia, sapete: ne hanno tante, una per ogni operaio, una per ogni impiegato che guarda al datore di lavoro come un padre.
L’azienda di Antonio curava gli allestimenti dei negozi. Settore florido quando i negozi aprono o si rinnovano per ricevere la propria clientela. Quando ogni variazione dell’economia prevede nuove opportunità, ristoranti e bar e vendita di abbigliamento e artigianato per accogliere turisti e visitatori, curiosi e incantati di fronte agli scaffali pieni di merce.
La Malattia che ha catturato la mente di Antonio ha tra i primi sintomi la costruzione di uno scenario diverso, quello che segue il virus.
L’insorgere della solitudine. Il timore di spendere, la fuga dall’effimero. Il progressivo inesorabile spostamento degli acquisti dal commercio tradizionale a quello telematico, anonimi furgoni che consegnano pacchi tutti uguali al posto del passeggio affollato davanti alle vetrine illuminate. Man mano che i giorni della fase uno passavano, forse questi dettagli costruivano nell’anima ammalata di un uomo che aveva l’intelligenza di guardare avanti un deserto di disperazione.
Abituiamoci alla Malattia. Non quella ottusa e invisibile, che ci costringe alle mascherine che nascondono i sorrisi e alla privazione degli abbracci. Non è quella che uccide più subdolamente, non è quella che stermina i sogni.
La Malattia che ha ucciso Antonio sostituisce il futuro con il deserto.
E fa molta, molta più paura.
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