02 novembre 2020   Articoli

Perché la realtà distopica del Covid-19 non impedisce la svolta del digitale

Amedeo Lepore - Il Mattino

Amedeo Lepore - Professore ordinario di Storia Economica - Università della Campania Luigi Vanvitelli

Viviamo in un’epoca di antinomie, oltre che di pesante incertezza. Le più ripetute riguardano la giustapposizione tra digitale e analogico, tra individuo e gruppi, tra equità e disuguaglianza, tra uomo e macchina, tra utopia e distopia. Detto in altro modo, siamo a un bivio ineludibile, come avviene in tutti i periodi di transizione da un modello di sviluppo a un altro, tra la realizzazione delle enormi potenzialità di cui si è dotata l’umanità, attraverso l’evoluzione impetuosa della scienza e della tecnologia, e il “cupio dissolvi” di un pianeta incapace di impiegare queste straordinarie innovazioni per risolvere i suoi problemi incombenti. Mai, se non dopo la seconda guerra mondiale, ci eravamo trovati di fronte a uno snodo tanto decisivo, che chiama in causa direttamente le attitudini di governo delle grandi comunità transnazionali e dei singoli Stati. La sfida riguarda, ormai, i gruppi dirigenti dei nostri Paesi e la democrazia, arrivando a domandarci se avranno la forza per farcela. L’improvvisa comparsa del coronavirus e i suoi effetti devastanti si sono innestati sulle fragilità strutturali preesistenti, svelando criticità stratificate tra scienza e politica, mercato e Stato, rallentamento dell’accumulazione della ricchezza e ineguaglianze diffuse. 

La pandemia ha colpito maggiormente le economie in difficoltà e le compagini più deboli, anche in Paesi con lunga tradizione di sviluppo, e ha messo in discussione la fiducia in un mondo avanzato. Tuttavia, l’Europa, reduce dalla cattiva prova della crisi del 2008-2014, è riuscita in tempi molto ridotti a ritrovare il senso della sua storia e a intraprendere un cammino impegnativo con il Next Generation EU. Da qui può partire anche per affrontare la “seconda ondata” del virus e per avvalersi degli strumenti migliori a sua disposizione. Stefano de Falco, intervenendo su questo giornale, ha sostenuto la fine del mito digitale con eleganti argomentazioni e rifuggendo da un luddismo tecnologico che è parte di questa fase. Eppure, la capacità umana può essere solo accresciuta dall’applicazione all’economia e alla società dei progressi scientifici in corso. Oggi, anzi, la fantascienza dei grandi scrittori e registi sembra traboccare nella realtà, per prendere le sembianze di intelligenza artificiale e robot collaborativi, biotecnologie e predizioni sanitarie, internet delle cose e sistemi ciberfisici. Come pensare che questa trasformazione non faccia parte pienamente del ciclo complesso della nostra esistenza? Il Covid ha sicuramente proiettato l’umanità in una dimensione distopica, mai percepita prima, frutto di una “incertezza radicale” che impedisce di effettuare previsioni sul futuro, nonostante i sofisticati modelli probabilistici di cui dispone il mondo attuale. E l’innovazione digitale ha mostrato anche gli aspetti crudi di un modello di comando, che travalica le persone e le sottopone a interessi particolari. Tuttavia, non siamo nell’era del “capitalismo della sorveglianza”, descritta in modo suggestivo da Shoshana Zuboff e avvalorata da un film a effetto e molto controverso come “The social dilemma”. Questa, al contrario, è l’epoca dell’economia della conoscenza e della connessione, che sono un modo unico per riequilibrare i valori della società, ampliare gli obiettivi d’impresa e rispondere con efficacia alla crisi odierna. Immaginiamo solo per un istante quello che sarebbe accaduto durante l’emergenza, senza tecnologie abilitanti e nuovi media: moltiplicazione di una solitudine cosmica tra gli individui, impossibilità di proseguire attività primarie (dall’istruzione a molti rami dei servizi e della produzione), lontananza assoluta da ogni centro di decisione. Il problema cruciale, allora, non è la perversione degli strumenti digitali, ma il loro accesso universale e il loro uso, le regole che li governano, la competenza e la coscienza degli esseri umani che ne indirizzano il funzionamento, il modello di gestione in cui si inserisce il loro apporto. Se fosse sempre così, i mutamenti digitali e le conoscenze che li hanno prodotti sarebbero un prodigioso mezzo di libertà e costruzione della storia, non un falso mito. 

La prima rivoluzione industriale, nel breve termine, ha certamente generato disparità e creato squilibri, sfruttando uomini, donne e fanciulli, fin quando l’organizzazione dei lavoratori e la legislazione sociale hanno introdotto principi di tutela e di giustizia sociale. In un quadro duraturo, però, ha comportato il superamento della trappola malthusiana e la liberazione dal giogo dell’insussistenza di beni essenziali per strati sempre più vasti della popolazione. Nel contesto di un altro cambiamento epocale, le nuove tecnologie possono contribuire a imboccare la strada giusta del progresso, scongiurando la condanna a una lunga regressione.

 

 

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Economia

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