28 maggio 2024   Articoli

Nuova stagione, nuovo metodo

Amedeo Lepore - Il Mattino

Amedeo Lepore - Professore ordinario di Storia Economica - Università della Campania Luigi Vanvitelli

L’apertura di un tavolo di coordinamento del PNRR tra il Governo, le Regioni e gli Enti locali, con l’insediamento di apposite cabine di regia presso le Prefetture, prova a rispondere alle indicazioni della Commissione Europea di una maggiore efficacia e alle richieste dei soggetti attuatori di un rafforzamento delle modalità di esecuzione di interventi cruciali per il futuro del Mezzogiorno e dell’intero Paese. 

Questa scelta può affrontare i nodi critici della fase realizzativa e dare frutti positivi, specialmente se costituisce una convinta assunzione di responsabilità nazionale per un’interazione costante e costruttiva con le istituzioni regionali e locali, superando un’impasse che non ha aiutato il dispiegamento delle attività sul territorio. 

È la stessa opportunità che si è verificata alcuni anni fa con l’esperienza – in seguito, purtroppo, abbandonata – dei Patti per lo sviluppo, combinando coordinamento, supporto tecnico e monitoraggio del Governo con un’autonoma capacità operativa di Regioni e Città Metropolitane. 

Al contrario, nel caso l’iniziativa dovesse risolversi in una forma di puro e semplice centralismo, si renderebbero vani gli sforzi compiuti, impedendo di fatto il raggiungimento degli obiettivi del Piano. In una prospettiva di effettiva cooperazione, questa strategia potrebbe contribuire a riprendere, ben oltre l’approccio top down efficace per l’epoca e in un contesto istituzionale ed economico del tutto diverso, alcuni aspetti importanti della vicenda della Cassa per il Mezzogiorno. 

Per raccontare questa storia – di cui hanno discusso alla Luiss autorevoli personalità in un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Merita – occorre uscire dagli stereotipi negativi che hanno contraddistinto, perlomeno fino a un decennio fa, una parte della letteratura e, ancor più, il senso comune. 

La decisione di istituire un ente dotato di speciale autonomia e di una struttura tecnica efficiente fu assunta attraverso un peculiare scambio di esperienze al di qua e al di là dell’oceano, con protagonisti Paul Rosenstein-Rodan per la Banca Mondiale e Francesco Giordani per la Banca d’Italia. 

L’elaborazione dei neomeridionalisti della Svimez si incontrava con quella dei teorici della crescita per provare in Italia, un Paese per metà avanzato e per metà arretrato, un prototipo da impiegare, in caso di successo dell’esperimento, nelle aree del mondo in maggiore ritardo. 

La creazione della Cassa, contemporanea all’approvazione della riforma agraria, si discostava dalle indicazioni di Pasquale Saraceno, che avrebbe voluto subito un intervento di carattere industriale. Nei primi sette anni di attività, l’ente, prendendo spunto dall’esempio della Tennessee Valley Authority che aveva favorito lo sviluppo di una delle aree statunitensi più colpite dalla grande depressione, si dedicò alla realizzazione di infrastrutture in tutto il Sud, a supporto della crescita agricola e civile. 

Nel 1957, in una singolare coincidenza di circostanze, iniziava la fase di industrializzazione vera e propria, che avrebbe cambiato l’assetto economico meridionale, proprio mentre l’Italia si collocava tra i principali attori dell’avvio del processo di integrazione europea. 

Il ventennio più significativo della Cassa per il Mezzogiorno fu quello tra il 1950 e il 1973, durante una golden age segnata dalla tripla convergenza tra l’Europa e gli Stati Uniti, tra l’Italia e le aree europee più progredite, tra il Sud e Nord del Paese. In quel periodo, il sistema produttivo meridionale ha fornito un forte impulso al miracolo economico italiano, dando vita all’unica stagione di riduzione del divario con le regioni centrosettentrionali durante tutta l’epoca unitaria. 

Dopo quella fase, si chiuse l’epopea della Cassa, poiché la congiuntura internazionale (con la fine del sistema monetario inaugurato a Bretton Woods e l’irruzione delle crisi petrolifere) e la modalità di formazione delle Regioni in Italia (con la loro interferenza nella gestione dell’intervento straordinario) infersero un duro colpo alla modernizzazione industriale del Mezzogiorno. 

Da quel momento in poi, la prevalenza di una politica di tipo assistenziale, imperniata sulla distribuzione a pioggia delle risorse e sulla “intermediazione impropria”, come l’ha definita Piero Barucci, annullava gli effetti della Cassa e ricacciava il Sud nella spirale della divergenza, rianimando il dualismo italiano. L’intervallo illusorio delle politiche di sviluppo locale non solo non ha risollevato le regioni meridionali dalla loro condizione di arretramento, ma ha contribuito all’origine di una “questione settentrionale”, basata, non senza ragioni, sullo spreco di risorse pubbliche operato nell’altra parte del Paese. 

Il modello generato dalla Cassa è stato da me denominato, con un falso ossimoro, “keynesismo dell’offerta”, perché, invece di fondarsi sulla crescita pura e semplice del reddito, si è caratterizzato per la spinta agli investimenti e all’accumulazione produttiva. 

Non si trattava di un’impostazione statalista, ma, come indicava Saraceno, della preparazione di uno scenario di mercato mediante un intervento pubblico, che avrebbe dovuto essere a termine. 

Questa visione si collegava alla linea di pensiero di Francesco Saverio Nitti e Alberto Beneduce, ma anche all’ispirazione del New Deal rooseveltiano, secondo cui lo Stato avrebbe dovuto assumere le vesti di un’azienda nella sua flessibilità e capacità di movimento. I risultati del primo ventennio della Cassa per il Mezzogiorno, in una proficua interazione con la Banca Mondiale, sono stati notevoli e hanno dimostrato che il Sud poteva e può essere interprete del suo destino. 

Qual è il lascito di un’esperienza tanto importante? 

L’esempio degli uomini della Cassa, a cominciare da Gabriele Pescatore, e la “forza silenziosa della memoria”, come l’ha chiamata Roberto Napoletano qualche anno fa, appaiono molto distanti dall’abbandono fatalista o dal fervore rivendicazionista di antiche forme di meridionalismo, che rischiano di riproporsi sotto le spoglie del “sudismo”. 

La visione d’insieme dei vincoli strutturali del processo di sviluppo italiano e la capacità di inserire la questione del Mezzogiorno in un contesto internazionale rappresentano un insegnamento utile per l’attualità. 

L’esperienza della Cassa non è ripetibile, visto il cambiamento del quadro geopolitico, la complessità dei problemi odierni, la necessità di strategie produttive e finanziarie più avanzate. Se dovessimo retrodatare un articolo di Gillian Teet sul Financial Times, che sostiene la necessità di dimenticare macroeconomia e microeconomia perché è la mesoeconomia che conta (ovvero uno spazio intermedio tra la visione sistemica dall’alto e quella dal basso), la storia dell’intervento straordinario andrebbe ripensata.

I motivi di questo posizionamento al centro, teorizzato nell’ultima parte del Novecento da Stuart Holland e ripreso di recente da William H. Janeway, derivano dai rischi insorti nelle catene di approvvigionamento a causa dei traumi geopolitici, ambientali e sociali, dal ritorno vigoroso delle politiche industriali sulla scena economica e dall’avvento dell’innovazione digitale con la possibilità fornita dai “big data” di monitorare da vicino le reti aziendali. 

Tre fattori in grado di cambiare il punto di osservazione dei processi di trasformazione. Se il modello top down è stato del tutto valido per il periodo della Cassa, la mesoeconomia può essere d’aiuto per l’oggi. In ogni caso, resta l’opportunità di suscitare uno spirito analogo a quello del dopoguerra per affrontare le conseguenze delle ultime crisi e riprendere la strada della risalita. 

La passione e la voglia di riscatto di allora, la reciprocità di interessi tra il Nord e il Sud che si manifestò in quell’epoca d’oro, procurando prosperità all’intero Paese, devono risuonare come uno stimolo a rinnovare il protagonismo del Mezzogiorno nell’ambito di nuove politiche nazionali ed europee.

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Economia

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